Estratto Primo Incontro. Dal BDSM Romance: “Possession. Il confine tra l’amore e l’appartenenza”

Possessio

Come promesso ecco a voi un breve estratto del BDSM romance in stesura: “Possession. Il confine tra l’amore e l’appartenenza” .

(Ancora da editare)

Mi stiracchio un po’, mentre sistemo la fettuccia nello stesso cassettone dove l’ho trovata, e poi passo a fare una copia della ricevuta per il cliente. Cerco di darmi una mossa per fargli trovare il foglio già pronto e liberarmi dalla sua compagnia il prima possibile, ma nella fretta dei movimenti, con una mano ancora impegnata nel massaggio al collo, il porta penne si ribalta ed ogni cosa si riversa a terra: penne, matite e attash di ogni genere.

Torno dall’altra parte del bancone e mi accingo a raccogliere il microcosmo riversatosi da quel cilindro di plastica, a fatica data la presenza insistente di questo sole che non smette di rifrangersi contro le ampie vetrate del locale.

“Maledizione!”, affermo mentre il dolore al collo viene sostituito in fretta da quello sul dito indice della mano destra, ferito da una punta di attash afferrata in malo modo nella fretta. “Cazzo!”, esclamo poi quando mi accorgo del sangue che esce dalla piccola ferita.

“Maledizione era più opportuno, in effetti”.

“Oh…”, mi sollevo di soprassalto, non appena la voce del cliente mi sorprende. Purtroppo, però, la mia risalita è così veloce e maldestra da farmi inciampare sullo stand delle cravatte alle mie spalle, proprio accanto al bancone, e costarmi un nuovo contatto col pavimento freddo e duro. “Diamine!”

“Già meglio. Prego, mi dia la mano, l’aiuto”.

Ed è in quel momento che sento una strana sensazione alla bocca dello stomaco, nello stesso e identico istante in cui i nostri sguardi si incatenano e le nostre mani si sfiorano: i miei occhi verdi den-tro i suoi, molto più profondi e neri, le mie dita sottili all’interno del suo palmo grande e morbido.

Inginocchiata a terra, lo fisso inebetita per secondi che sembrano ore. Sento le gambe come paralizzate, a contatto con il pavimento che ora sembra bruciare contro il lembo di pelle morbida, lasciato scoperto dalla longuette appena sollevata.

Lui fa lo stesso: una perfetta statua di sale che, immobile, nella sua grossa e quasi pressoché perfetta mole, mi guarda dall’alto, con il braccio destro proteso in avanti e la mano aperta, il palmo verso l’alto che accoglie il mio.

E non so cosa senta davvero dentro di me, non saprei come spiegarlo a parole, l’unico modo che il mio corpo ha di esprimersi è restare perfettamente immobile, inginocchiato a terra, mentre lui resta fermo, nella stessa e identica posizione, a fissarmi. Il tutto per secondi che paiono infiniti, almeno sino a quando la sua voce non rompe il fitto silenzio che ci avvolge.

“In piedi”.

È sottovoce che lo dice, ma il tono è talmente fermo e sicuro che le mie orecchie lo percepiscono a decibel molto maggiori.

Ed è in quell’esatto istante che, sospinta dalla sua voce e dalla presa della sua mano, ora più ferrea attorno alle mie dita, mi sollevo, senza distogliere lo sguardo dal suo. Continuiamo a fissarci, come persi dentro una bolla di sapone da cui nessuno dei due sembra voglia uscirne. Un immenso, quanto debole, film di acqua e sapone, la cui superficie iridescente viene improvvisamente annullata quando nuove voci interrompono di nuovo il silenzio.

Sottraggo, più per istinto che per coscientemente, la mia mano dalla sua e il mio sguardo si riversa su una coppia di mezza età che ha appena messo piede all’interno del negozio. Sorrido salutando i nuovi clienti; ma quando mi volto nuovamente verso di lui non c’è più. Mi ritrovo a fissare la sua schiena attraverso la vetrina, mentre s’incammina lungo i corridoi ancora semi deserti del centro commerciale.

Resto con il braccio proteso in avanti, la ricevuta sporta verso il nulla. Un misero pezzo di carta che a quanto pare resterà qui oggi, assieme a me e a questo fastidioso, quanto inaspettato, vuoto allo stomaco che ancora sento pressante sotto lo sterno…